Ho trovato questa intervista di Dovizioso, me la sono letta e mi è piaciuta molto visto che è improntata tutta sul duello tra lui e Simoncelli, sin da piccoli, fino a quel tragico incidente.
Mi sono piaciute le parole di Andrea e vorrei commentarle con voi.
Anche se un po lunga ma ne vale la pena secondo me
Cosa non ha funzionato, sin dall’inizio, tra di voi?
«C’è una video cassetta in cui siamo sul podio di una gara di minimoto: io avevo vinto, Marco era stato secondo. Bene, io ero serio mentre lui rideva e sdrammatizzava. Ecco, questa era la differenza tra di noi».
Cioè?
«Io, in tutte le gare che ho corso dai 7 ai 14 anni, se non vincevo piangevo. Tutte le volte! Ed era un pianto forte: mi nascondevo sotto il tavolo del camper, stavo lì a piangere per mezz’ora, poi uscivo dopo essermi sfogato. Lui invece no, perdeva e ci rideva sopra. E guarda che ci stava male anche lui, gli rodeva tanto, però sembrava che non fosse successo niente. E ha sempre fatto così. Anche quest’anno, dopo avere combinato un casino, o dopo avere buttato via una gara o un podio per una caduta, lui la metteva sul ridere, o faceva la battuta che toglieva l’imbarazzo. Ecco perché tutti lo amavano: lui faceva ridere, era più simpatico».
Già, tu invece...
«Io non sono così. Quando faccio un errore che mi fa perdere un buon risultato non posso, e non riesco, ad essere contento. Quindi non posso né ridere né sdrammatizzare. Né sul podio, né nelle interviste. Ho perso? Allora devo capire perché, quella diventa la mia priorità immediata. Invece Marco sdrammatizzava subito, con la gente e con i giornalisti, facendo ridere tutti con una parolaccia o con quel suo modo di parlare particolare. Poi però, quando era da solo, rifletteva e ci stava male. Ma lui aveva un modo migliore del mio per togliersi di dosso la pressione».
Diceva che hai la tendenza a lamentarti.
«Perché se ci capitava la stessa cosa, io reagivo in un modo e lui in un altro. Io cerco i perché e faccio un’analisi, lui invece faceva le battute, diceva due parolacce e faceva ridere tutti. Quello che diceva di me, era dettato dal suo modo di vedere le cose».
Già, due persone all’opposto.
«Capisci bene che due ragazzi che non hanno nulla in comune non possono avvicinarsi. Non possono avere cose da condividere, quindi non può esserci amicizia. Era questa la grossa differenza tra di noi: l’approccio e il carattere che non c’entrano nulla con l’altro. Due cose opposte che non ci facevano condividere niente: la giornata, l’allenamento, i problemi, l’amicizia. Però c’è una cosa importante da sottolineare: tra di noi c’è stato sempre rispetto».
In effetti, a parte le polemiche di inizio 2011, causate anche da Lorenzo, ultimamente non avevate avuto problemi.
«A parte il fatto che al fuori di una pista io e lui non ci siamo mai fatti niente, il nostro approccio era semplice: tu non mi piaci, non mi sei simpatico, non condivido nulla con te, ma ti rispetto perché so che sei un buono».
Tutto chiaro.
«Caratterialmente Marco era un buono, e anche io sono un buono. Posso dirti che sei uno stronzo, ma è una brutta parola detta da un buono. E lui era uguale a me. Invece ci sono le carogne che ti farebbero molto peggio, se potessero. Io e lui eravamo due persone buone che per questo motivo non andavano mai oltre un certo limite».
Da piccoli eravate tosti, però.
«Sì, ma erano solo diverbi. Niente di più. Vuoi che ti racconti l’episodio più eclatante che è successo tra noi? Avremo avuto 8 anni io e 7 lui, eravamo ad una gara selettiva del campionato italiano minimoto. Dopo una corsa un po’ aggressiva, dove abbiamo lottato per tutti i giri e lui mi dava i calci – sì, proprio i calci... – subito dopo il traguardo sono andato verso di lui e ho cominciato ad urlargli in faccia. La scena fu strana: io urlavo, mentre lui restava fermo a guardarmi mentre lo insultavo. Allora ho cominciato ad urlare anche contro il suo babbo, così a quel punto i commissari pensarono di squalificarmi: volevamo darmi 6 mesi di squalifica!».
Nel 2011 Marco aveva fatto un notevole salto di qualità, sul piano della velocità.
«Anche io mi sono stupito nel vederlo velocissimo in inverno. Nonostante lo conosca meglio di tutti, mi ha sorpreso. Lui nel 2010 ha fatto un brutto esordio in MotoGP, considerando che aveva la moto ufficiale; ma ha finito la stagione andando spesso veloce, quindi all’inizio del 2011 sapevo che era in crescita. Però non pensavo ad un esordio così eclatante».
È andato forte anche nelle prime gare.
«Però fino a Jerez i piloti ufficiali gli hanno dato troppa credibilità. Perché era veloce in prova ma non aveva ancora una perfetta gestione della gara. E fino a quando non sei costante in gara, i piloti di vertice non ti considerano un rivale realmente pericoloso».
Da cosa si capiva?
«Dal suo metodo di lavoro. Lui era tutto gas, tutto istinto. Era superveloce nei turni di prova ma in gara aveva ancora qualche limite. Anche se dopo le gare di Jerez o Estoril era apparso chiaro che lui sarebbe arrivato, non preoccupava i piloti di vertice perché non aveva ancora il metodo, cioè quello che possediamo io, Pedrosa, Lorenzo, Stoner, per non parlare di Valentino. Questo metodo ti permette di andare forte in prova più o meno allo stesso modo in cui andrai forte anche in gara. Quando arrivi a questo punto, allora fai il vero salto di qualità».
E a Marco ancora mancava.
«Fino ad oltre metà campionato, in gara ha combinato spesso qualche casino. Poi in agosto, a Brno, è stato terzo. A Motegi ha corso molto bene. E in Australia è stato secondo: per me quella è stata la sua prima vera bella gara della stagione».
Cominciavate a soffrirlo...
«Come velocità era impressionante. Ti impressionava vederlo così veloce anche in rapporto al suo peso, che di sicuro lo limitava in accelerazione, e al suo stile di guida che non era sempre appropriato».
È sempre stato grande, come corporatura?
«Negli anni delle minimoto era piccolo, come me. Si è allungato all’improvviso, negli anni della 125. Invece è sempre rimasto lo stesso nel modo di guidare e approcciarsi alla gara».
Era già così aggressivo?
«Ah sì, lui nelle minimoto era identico a come era quest’anno: stesso stile di guida, quindi molto forte nei curvoni veloci, e sempre all’attacco, sempre duro nelle entrate, sempre pronto a sportellare. Anche da bambino ti buttava fuori. Era la sua mentalità, che ha mantenuto in ogni categoria. Certo, tutto è poi aumentato quando si è ingrossato fisicamente: quando sportelli quelli che sono più piccoli, tu hai più forza e più peso per riuscire a rimanere in piedi. E gli altri vanno giù».
Tutti l’hanno considerato un avversario tosto, anche in 250 e MotoGP.
«Marco era uno di quelli che nella lotta ti disturbano, ti attaccano subito, ti fanno più sorpassi di altri. Uno che non molla. Ma il suo limite è che quando decide di passare lui passa, ma lo fa anche anche quando non può: lui decide, e ti attacca lo stesso. È un grosso problema per chiunque, un avversario così. Ecco perché dico che Marco è sempre stato pesante».
Comunque era uno che imparava, che si applicava tanto.
«Marco era intelligente. Anzi, era molto intelligente. E non è che i piloti siano tutti intelligenti... Marco invece lo era, eccome. Lo si capisce anche dal fatto che evolveva: chi evolve è intelligente».
Recentemente si era messo a studiare la guida di Stoner.
«Infatti tra il 2010 e il 2011 è progredito perché ha cambiato la tecnica di guida: ha cominciato a raddrizzare la moto come fa Stoner. Marco nel 2010 a fine anno era molto veloce ma guidava ancora con tanto angolo di piega, derapando molto. Ha cambiato questo aspetto, ed è andato subito più forte. Anche se lui usava molto più controllo di trazione di noi (cioè i piloti HRC): ecco perché in molti punti apriva molto di più il gas, ma usciva più lentamente. Perché doveva guidare con più controlli».
È curioso il fatto che lo hai sempre preceduto, in ogni passaggio di categoria.
«Marco ha avuto una carriera diversa dalla mia, anche se avevamo solo un anno di differenza. Diciamo che è avanzato in modo più lento, perché con il suo modo di correre ha spesso rovinato dei potenziali risultati con le sue tante cadute. Io sono arrivato nella 125, un anno dopo è arrivato lui. Nel 2004 ho vinto il titolo, poi sono passato in 250. E un anno dopo è arrivato Marco: che cadeva tanto, mentre io concretizzavo di più. Poi nel 2008 sono andato in MotoGP, e due anni dopo è arrivato lui: che andava forte, ma cadeva spesso».
Le cadute sono state il suo vero problema. Perché, secondo te?
«È il suo talento che l’ha ha sempre fatto cadere, in tutte le categorie».
In che senso?
«Aveva un talento che gli permetteva di essere velocissimo, ma all’inizio, cioè al debutto in ogni categoria, non gli faceva capire subito cosa doveva fare. Prendiamo la 250. Lui all’inizio cadeva tanto perché appena non riusciva ad essere veloce come gli altri cercava di andare ancora di più, cioè frenava sempre un po’ dopo, e a quel punto sbagliava... Quindi cadeva. Ma quando lo ha capito e si è calmato – si dice che Valentino lo abbia aiutato molto, in questo senso – sono venuti fuori i tempi e le vittorie. Perché il talento l’aveva».
Tu ragionavi in modo diverso?
«Sì, per carattere. Ho sempre prima studiato, poi agito. Mi ricordo che subito, in 125, ho cercato di capire perché nel Mondiale i piloti facevano meno percorrenza di curva pur essendo più veloci. Ho capito che piegavano con meno angolo, così aprivano prima perché si raddrizzavano prima. Ma nonostante avessi poi vinto il titolo, quando arrivai in 250 compresi subito che avrei dovuto ricominciare quasi da zero. E mi sono rimesso a studiare. Ma chi vuole vincere, fa così».
Marco era più lento ad arrivare perché era istintivo?
«Perché esagerava sempre. Era la sua indole, il suo modo di fare».
Ma era anche molto supportato dai tifosi, in tutto il mondo.
«Certo, ed è chiaro il perché lui piaceva tanto alla gente. Il pilota che spinge e dà sempre tutto piace molto anche se non ottiene sempre i risultati, perché può vanificarli facendo degli errori».
Quest’anno aveva sofferto per il ritorno delle polemiche contro di lui, dopo gli episodi in Portogallo e a Le Mans che hanno coinvolto Lorenzo e Pedrosa. Disse anche che avevate preparato una manovra contro di lui, per farlo punire, dopo esservi riuniti.
«Parlo per me, perché le storie con Lorenzo o gli spagnoli sono un’altra cosa. Non è vero che ci siamo riuniti prima di parlare contro di lui. E se c’è stata una riunione in una hospitality neutrale (quella dell’Alpinestars ndr) io non c’ero, perché non sono stato chiamato. Glielo avevo anche spiegato, ma lui in quel momento non voleva ascoltare. Però Marco si è poi reso conto di avere spesso esagerato, perché poi dopo tutte quelle polemiche si è calmato parecchio. L’entrata su Valentino a Misano era al limite, cioè una manovra “alla Simoncelli”, ma ci stava».
A Le Mans hai detto: “lui ha un limite diverso dal nostro”.
«Il problema veniva da quello. Infatti non c’è mai stata alcuna cattiveria nei suoi confronti, così come non c’era cattiveria nelle manovre di Marco. E io l’ho sempre sottolineato. Valentino su Gibernau a Jerez nel 2005 fu una manovra fatta apposta (da Valentino). Barbera quando ti passa e ti punta, e magari ti fa qualcosa, lo fa apposta. Spies che ti ostacola quando gli sei vicino, lo fa apposta. Marco invece non lo faceva apposta ».
Però non andava troppo per il sottile.
«Il problema era che lui ti superava anche quando non si poteva, e a certe velocità quando hai cominciato certe manovre poi non puoi fermarti. Lui decideva una cosa indipendentemente da quello che facevano gli altri. Bisogna guardare cosa fanno gli altri, e se uno fa una cosa diversa dal solito devi avere un piano B. Marco non ce l’ha mai avuto, il piano B. Così buttava via una gara, ma poteva farla buttare via anche a te».
Si offese anche quando Stoner gli disse “tu non hai bisogno di fare certe cose”.
«Già, e non capì che in realtà Casey gli aveva fatto un grandissimo complimento».
Parliamo di Sepang?
«Mi è accaduta una cosa strana. Ci ho messo tanto per realizzare che fosse successa una cosa così grave. E anche dopo, è stato difficilissimo rendermene conto».
Le immagini erano chiare, però.
«Sul momento c’era l’adrenalina della gara interrotta all’improvviso, con tutte le problematiche che ci sono. Non so cosa dire, io non sono riuscito a pensare “Marco si è fatto molto male!”. La verità è che per me è stato impossibile realizzabile questo concetto. Infatti anche vedendo immagini così brutte non ho pensato alla morte, ma neanche alla possibilità che fosse rimasto paralizzato. Ho pensato “Va bene, avrà preso una gran botta, ma sarà come al solito, poi tutto si aggiusterà”. Solo quando sono andato ad abbracciare suo babbo, nel box, mi è arrivata la botta. Ho pianto per molto tempo. Sono tornato nel mio box e ho pianto tantissimo. Ma è stato tutto strano anche dopo».
In che senso?
«Sono partito dalla Malesia domenica notte, ma anche al ritorno a casa non la sentivo una cosa che fosse successa veramente. Il giorno dopo, martedì, quando mi sono informato per andare a casa Simoncelli, ero a disagio: visti i rapporti che c’erano tra di noi, mi chiedevo: chissà chi mi risponde, chissà cosa mi dicono... Mi ha risposto sua sorella, che è piccola e c’è anche rimasta male; poi mi ha passato sua mamma che mi ha detto che la cosa migliore era andare là. E quando, a casa loro, mi sono di nuovo abbracciato con suo babbo, allora sono arrivate le emozioni. Quelle vere. Anche perché in quel momento ho sentito il rispetto reciproco».
Finalmente.
«Paolo, ormai da un anno non mi salutava più. Era così alta, la rivalità, che se non era obbligato non mi salutava. Ma non era successo niente, era a causa della rivalità accumulata in tanti anni e diventata ancora più estrema adesso che io e Marco eravamo tutti e due al massimo livello e con la stessa moto. È stata una cosa stupida...».
Cosa è successo quando eri in casa di Marco?
«Sono arrivato quando era appena arrivata la bara, e dovevano aprirla. Sapevo che quella scena mi avrebbe fatto molto male, ma volevo vedere Marco perché pur se avevo ormai realizzato cosa gli fosse successo, ogni volta che pensavo a lui lo vedevo con la sua solita espressione. Non riuscivo a pensare a Marco da morto, e questa cosa non mi andava giù. Se devi convivere con questa realtà, e accettare che le cose stanno così e non puoi farci niente, allora la devi vedere per come è. Provavo fastidio e disagio nel sapere che Marco era morto e io lo pensavo con una faccia normale. La sua immagine che mi veniva agli occhi era lui sorridente, oppure come era quando finiva una gara, cioè stanco ma magari anche sorridente. Volevo superare questa fase».
Come è andata?
«Nella mia vita ne ho viste pochissime, di persone morte, ma vedere il viso di Marco da morto, a casa sua, è stato pesantissimo. Però mi è servito a rendermi veramente conto del fatto che lui adesso è così. Quindi questa è la realtà. È stata durissima, vederlo così, ma è stato giusto che io lo vedessi. Adesso ho tutte le immagini di lui, nella mia memoria, e questo mette le cose a posto».
Cosa ti ha fatto pensare, un episodio di questo genere?
«Viviamo con quello che vogliamo vedere noi, ma quella non è sempre la realtà. Cerchiamo di stare sempre meglio, non ci basta mai niente. Ma le cose gravi sono ben altre, e fino a che non ti avvicini a certe cose, anche se sai che possono esistere, tu non te ne rendi veramente conto».
E anche tu sei padre.
«Ma quando penso a Marco mi metto più nei suoi panni, che in quelli di Paolo».
Cosa hai hai perduto, tu, con la scomparsa di Marco Simoncelli?
«Ho perso “Il” rivale. La verità è questa: lui è stato il mio vero rivale. Ne ho avuti tanti, di avversari forti e difficili da contrastare, ma lui è stato quello con cui ho vissuto anche la mia intera evoluzione. Anche se sono stato più volte davanti a lui, rispetto a quante sono stato dietro, Marco era il rivale sempre presente nei miei pensieri. E io lo soffrivo, questo. Lui mi faceva sempre paura, come rivale. Lorenzo, Pedrosa, Stoner, Valentino, sono piloti che mi hanno battuto molto di più di quanto io sia stato davanti a loro, quindi di me loro hanno una paura limitata. Invece io, di Marco, anche se fino ad ora lo avevo battuto più volte rispetto a quante mi aveva battuto lui, avevo sempre una paura maggiore. Ecco, questo è per fare capire cosa era la sua presenza per me».
Dunque avevate un rapporto molto più intenso di quello che volevate ammettere.
«Siamo sempre stati io e lui, sin dall’inizio. Cioè da quando eravamo piccolini. Ogni volta in cui salivo di categoria, mi aspettavo di vederlo arrivare: perché sapevo che c’era, e che poteva andare subito forte. Ogni volta mi preparavo al suo arrivo, e quindi a duellare con lui, perché sapevo che avrebbe subito cercato di attaccarmi. Appena avevo notizia che sarebbe arrivato, pensavo: ecco, adesso è una bega. È andata così anche nella Moto- GP. E anche guardando al futuro, sapevo che noi saremmo stati così. Per sempre».
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